È notte fonda e c’è un sogno in corso quando un rumore lo interrompe.
Non è la sveglia per l’allattamento dei cuccioli orfani (è l’1.20, mancano ancora 40 minuti all’allarme), ma una chiamata da un numero sconosciuto.
Il telefono è di fianco al volontario di turno, che in una manciata di secondi lo afferra e si riprende quel tanto che basta per comprendere ed essere comprensibile a un interlocutore umano:
“Rifugio Miletta, buonasera…”.
“Pronto, Rifugio Miletta? Tornavo dal pub e ho visto un bambi in mezzo alla strada, l’hanno investito tra il Bar Sport e il circolo di briscola sul tratto di strada che va in mezzo al bosco…”.
Ci siamo. Di nuovo. Il tempo di un respiro per cacciare il sonno e richiamare l’efficienza che, in questi anni, è stata perfezionata per aiutare sempre di più, sempre meglio, sempre più velocemente… e l’umana macchina dei soccorsi si mette in moto.
Bisogna guidare chi parla trafelato dall’altra parte del telefono, così che dia soltanto i dettagli essenziali, senza perdersi in divagazioni inutili. Bisogna raccomandarsi di seguire scrupolosamente le istruzioni, di mandare la posizione del ferito su WhatsApp, non in tempo reale (perché altrimenti non si può inoltrare a chi partirà fisicamente per il soccorsi), e di attendere che abbia una precisione di 5-10 metri, benedetta tecnologia; e, nel frattempo, bisogna allertare la coppia di volontarie di turno – si stanno già preparando, il mezzo attrezzato è pronto con tutti gli strumenti.
Partono. Torneranno tra 2, 3, 4 ore.
“Speriamo di salvarlo”, è l’ultimo pensiero che chi ha preso la chiamata rivolge al capriolo prima di provare a chiudere gli occhi.
Ma dopo pochi minuti la sveglia suona, per davvero, e stavolta è tutta sua; gli scoiattolini hanno fame e quei ricci di pochi grammi devono crescere un bel po’, biberon dopo biberon.
Quello che hai letto potrebbe essere il resoconto di qualche ora fa: una piccola parte di cosa può succedere in una notte qualunque a Rifugio Miletta.
Non che di giorno ci si riposi, anzi. Il recupero dei selvatici raggiunge il picco tra primavera ed estate e le telefonate per richiedere soccorsi arrivano a qualunque ora, da privati o forze dell’ordine, da un’area che si estende per 3.400 chilometri quadrati (la provincia di Novara, dove operiamo ufficialmente come CRAS, e quella di Vercelli, che raggiungiamo perché non c’è nessun programma di soccorso attivo per i selvatici… ma loro non lo sanno, hanno ugualmente bisogno d’aiuto e noi proviamo a darglielo). E i recuperi “straordinari”, a cui si dedicano una manciata di volontari-soccorritori (e in questo periodo, con gli allattamenti, il numero di chi può partire per i soccorsi si riduce ancora di più), si sommano e si sovrappongono all’ordinarietà di Rifugio Miletta: pulizia, allattamenti, supporto ai veterinari nelle terapie, burocrazia…
Se avessimo più risorse, economiche e umane, potremmo fare di più. Se ci fossero più volontari-soccorritori (mica semplice: servono formazione, affiancamento, disponibilità, vicinanza…) e potessimo predisporre una stanzetta con due brandine e un bagno dove, telefono alla mano e pronti per partire, ci si possa riposare tra un intervento e l’altro, potremmo avere coppie di soccorritori che si dedicano solo a questo e che, a fine turno, vanno a casa, tornano al lavoro, possono dedicare un po’ di tempo alla propria famiglia o a se stessi (come succede per chi soccorre umani).
E, visto che stiamo immaginando, facciamolo in grande: tutto questo andrebbe moltiplicato per più presidi, come sa chi dice “Ci vorrebbero tanti Rifugi Miletta”: un altro a sud della provincia di Novara e uno o due anche nella provincia di Vercelli, così da raggiungere prima e meglio chiunque abbia bisogno di noi.
Però… mentre sogniamo dove vorremmo arrivare per aiutare sempre più animali e ci mettiamo all’opera per trasformarlo in realtà, non perdiamo di vista dove siamo arrivate e cosa abbiamo imparato (e migliorato) da quando abbiamo iniziato.
Dagli ambienti per gli animali alle competenze, dall’efficacia delle nostre azioni agli strumenti… se ci segui da tempo, lo sai.
Abbiamo un mezzo attrezzato per il soccorso, acquistato due anni fa, quando le recensioni su abillion diventavano donazioni (l’altro, il Kangoo, è anziano e pieno di acciacchi, preferiamo usarlo solo per tragitti brevi, portare gli animali dal rifugio alla clinica).
Il numero dei veterinari che collaborano con l’associazione è cresciuto da 2 a 9, ognuno con competenze specifiche (e con una disponibilità preziosa: come Enrico e Simona, che si occupano di radiografie e chirurgia e a cui ci rivolgiamo per la maggior parte dei soccorsi di animali investiti, a ogni ora – e non è con leggerezza che li chiamiamo nel cuore della notte, per stabilizzare l’animale secondo le loro istruzioni, raccontargli la situazione e portarlo alla loro clinica – oppure Luca, il nostro veterinario esperto in catture e telenarcosi, spesso in prima linea con noi negli interventi più complessi).
Abbiamo iniziato col “dietro le quinte” dei recuperi e torniamo lì. Se rispondiamo assonnate… è perché lo siamo e probabilmente stavamo dormendo tra un soccorso e un altro; se sembriamo brusche mentre diciamo di andare dritti al punto non è perché siamo maleducate, ma per riuscire ad attivare prima i soccorsi (se potessimo solo dire di sbrigarsi ai passaggi a livello abbassati, uno degli incubi di qualunque soccorritore); se chiediamo di portare (chi trova un uccello o un piccolo mammifero in difficoltà è tenuto a farlo, non ci possiamo spostare noi) un selvatico recuperato durante il giorno entro le 20 (e non telefonare dopo quell’ora, a meno che si tratti di un’emergenza) è per riuscire a riposare almeno un po’ tra un’attività e l’altra.
Facciamo tutto il possibile e continueremo a farlo, finché potremo, per un motivo (anzi, per molti: tanti quanti gli interventi che facciamo): quando, dopo un soccorso, rientriamo a Rifugio Miletta, stanche, magari anche con il paziente che non ce l’ha fatta e un pezzetto di cuore spezzato, ma convinte delle nostre azioni per cercare di aiutare chi, altrimenti, verrebbe investito e ignorato, abbandonato come se la sua sofferenza non esistesse in quanto animale selvatico, “altro”, che non convive con noi nelle nostre case.
Ma nessuno per noi è “altro”, e tutta è la nostra casa.