Tre notizie, nei giorni scorsi, hanno riportato l’attenzione di molti (la nostra, così come quella di chi gestisce rifugi, non è mai venuta meno) sulla PSA, la Peste Suina Africana.
La prima: in sordina, sulla stampa, è stato messo nero su bianco che le misure attuate dall’Italia per la prevenzione della diffusione della PSA non sono sufficienti.
Intanto, altri articoli riportavano che aumentano i focolai di PSA in provincia di Novara, Vercelli, Pavia, Milano e Lodi; e, per finire (per adesso), c’è una ricostruzione ufficiale dell’origine dell’epidemia in Lombardia, una “catena di errori e contagi” (come riportato da RaiNews.it) causati dal mancato rispetto delle più basilari norme di biosicurezza.
Sono notizie che meritano un approfondimento, ancora di più mentre si avvicina il 20 settembre e, con esso, il primo anniversario dell’eccidio di Cuori Liberi.
Partiamo dall’ultima, ossia la scoperta dell’allevamento 0 da cui è partita l’epidemia (“una piccola azienda familiare” di Vernate, provincia meridionale di Milano, quasi ai confini col pavese), sia perché è stata forse la notizia che meno eco ha avuto sui media, sia perché evidenzia alcuni aspetti fondamentali della diffusione del contagio, anche se meno “affascinanti” di teorie semplicistiche che vogliono come principali untori i cinghiali.
I risultati delle indagini della Direzione Generale Welfare di Regione Lombardia sono stati presentati durante un convegno di Confagricoltura alla Fiera di Orzinuovi dal sub commissario per l’emergenza Psa Mario Chiari. Secondo quanto riportato da Il Giorno, Chiari ha dichiarato che “Le scarse misure di biosicurezza nell’allevamento di Vernate hanno determinato l’ingresso della malattia. C’è stato un ritardo molto importante nella segnalazione, perché da quello che è emerso dall’indagine congiunta con i Nas, sono state riscontrate una ventina di carcasse sotterrate nel retro dell’allevamento, tutte positive al virus”.
Quindi l’epidemia si è propagata a causa delle scarse (pressoché assenti, ammette Chiari) misure di biosicurezza da parte degli allevatori, la mancanza di una segnalazione tempestiva (ufficialmente si tratta del quarto cluster lombardo, ma non si esclude che le date comunicate non siano quelle effettive) e gli spostamenti, indisturbati e privi di protezione, sul territorio e in altri allevamenti da parte di allevatore e veterinario aziendale: sempre Il Giorno riporta che sono in corso anche le indagini dei Nas rispetto ai veterinari dell’Ats e che “il contagio ha viaggiato soprattutto tramite la movimentazione di persone (mani, calzature) e attrezzature”.
“Pochissime mele marce vengano a inquinare il nobile lavoro dei nostri allevatori” chiosa Regione Lombardia nel video di RaiNews.
In realtà, difficile pensare che siano “pochissime”, visto che i focolai sono in aumento proprio negli allevamenti intensivi; ma Assosuini, l’associazione degli allevatori suinicoli italiani, non perde tempo nel dichiarare che “non si può chiedere agli allevatori di trasformare gli allevamenti in sale operatorie e tenere i costi della carne ai minimi”.
Eppure, anche a livello europeo sono state criticate pesantemente la misure di prevenzione finora approntate dall’Italia per affrontare la PSA, giudicate inadeguate del team di esperti di EUVET, l’equipe di Emergenza Veterinaria della Commissione Europea, che a luglio ha effettuato dei sopralluoghi in Lombardia e in Emilia Romagna per verificare i provvedimenti per il contenimento della PSA. Bocciatura per l’Italia, questa la sintesi della loro relazione, arrivata pochi giorni prima delle dimissioni del commissario straordinario alla PSA Caputo.
La relazione critica l’operato dell’Italia su più punti. Intanto, le indagini dimostrano che non sono stati i cinghiali a veicolare il virus all’interno degli allevamenti intensivi in provincia di Pavia, Milano, Novara, Vercelli e Lodi, ma l’essere umano.
E infatti, secondo la relazione e con buona pace di Assosuini, per una prevenzione efficace, oltre a lavorare in modo unito e non disgiunto (cioè non ogni Regione per conto proprio), è fondamentale investire nelle misure di biosicurezza e nelle recinzioni, per evitare che i cinghiali si spostino di regione in regione (opera iniziata dal primo commissario straordinario alla PSA, Ferrari e mai completata per mancanza di risorse) e non nella caccia e negli abbattimenti di cinghiali, il metodo preferito dal secondo commissario, Caputo.
La relazione degli esperti della Commissione Europea lo dice esplicitamente: la caccia può eventualmente essere uno strumento di controllo e monitoraggio esclusivamente nei territori dove la PSA non è presente, mentre nelle zone di restrizione non solo è dannosa (perché disperde gli animali, e quindi potenzialmente il virus), ma impraticabile, perché la specie cinghiale non è eradicabile con facilità. Lo dichiarava anche l’ISPRA, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, nel 2022, subito dopo il primo caso di PSA in Italia, che sarebbe stato impossibile (e quindi inutile) uccidere tutti i cinghiali presenti nelle zone di restrizione.
Eppure, le uccisioni sono la risposta che il Governo sembra amare di più, tanto che il commissario Caputo, ha preferito usare risorse (ossia soldi pubblici) per mandare a sparare in giro per i boschi l’esercito, oltre ad un elevato numero di personale di province e regioni, in diversi casi assunto appositamente.
Eppure, simili risposte semplici e superficiali, accompagnate da dichiarazioni altisonanti con promesse di risolvere il problema all’istante per accontentare l’elettorato, non portano a soluzioni e la PSA avanza.
Ma forse a molti conviene continuare a dare la colpa ai cattivi cinghiali e puntare sulla mira degli amici cacciatori: ora che è stato ufficialmente riconosciuto che a portare la PSA negli allevamenti non sono i cinghiali, ma le persone, Assosuini tuona che le misure di biosicurezza sono troppo costose e, quindi, impossibili da rispettare.
Per chi, però? Le ASL stanno col fiato sul collo ai rifugi, facendo investire decine di migliaia di euro in biosicurezza e insinuando che i santuari siano delle polveriere di PSA pronte ad esplodere e a far morire tutti i maiali (negli allevamenti… i soli che contano).
Un anno fa, il 18 settembre 2023, il commissario straordinario per la PSA inviava alla prefettura e alla polizia di stato di Pavia l’email in cui chiedeva di sgomberare il rifugio Progetto Cuori Liberi per poter ammazzare i maiali sopravvissuti al virus: “Come anticipato per le vie brevi, risulta necessario procedere allo spopolamento del focolaio di peste suina presso il rifugio “Cuori Liberi”, nel quale è stata opposta resistenza da parte dei gestori. Al fine di garantire il corretto supporto alle operazioni in questione, e stante il rischio agli interventi da mettere in campo, si confida in un’assistenza adeguata”.
Due giorni dopo, hanno manganellato ragazze e ragazzi che chiedevano pacificamente di non uccidere gli animali sopravvissuti e hanno ammazzato Crosta, Pumba, Crusca, Dorothy, Bartolomeo, Ursula, Carolina, Mercoledì e Spino, gettandoli poi nella spazzatura.
Ucciderli non ha impedito che, un anno dopo, il virus entrasse in altri allevamenti presenti nella stessa zona. Investire in misure di biosicurezza avrebbe invece potuto “tutelare il patrimonio zootecnico”, cioè gli allevamenti intensivi.
Ma ancora c’è chi ritiene più efficace ammazzare gli animali non destinati alla produzione alimentare preventivamente, per tutelare gli allevatori, che chiedere che vengano rispettate norme basilari.
Il massacro di animali si è già dimostrato fallimentare e cercare di giustificarlo come una misura “per l’interesse di tutti” è falso, sciocco e frutto di una visione inaccettabile: che quei “tutti” meritevoli di attenzione siano solo coloro che muovono capitali, a discapito di vite che, per alcuni, valgono solo in misura del denaro che possono portare.